L’esistenza del fido può essere provata dal correntista non soltanto per il tramite del documento costitutivo dell’affidamento, ma anche di prove indirette (e/c, riassunti scalari, report di Centrale rischi ecc.) che implicano, in modo univoco, riconoscimento da parte della banca dell’avvenuta concessione del fido.
Non osta alla prova libera del fido l’art. 117 T.U. bancario, secondo cui i contratti bancari devono farsi per iscritto a pena di nullità. La nullità del contratto bancario amorfo è infatti unilaterale, ossia soltanto il cliente può farla valere (art. 127 T.U.). Segue che, se il cliente preferisce chiedere l’esecuzione del contratto bancario ancorché amorfo o in ogni caso non ne eccepisce la nullità, il giudice non può rilevarla d’ufficio.
Il piano probatorio è consequenziale. Se il giudice, in mancanza di eccezione, non può rilevare la mancanza di forma scritta per dichiarare la nullità del contratto, non può neppure rilevarla per applicare in danno del cliente un limite probatorio (art. 2725 c.c.) previsto per il solo contratto formale.
La c.m.s. deve essere compresa nel calcolo del TEG, anche per il tratto anteriore all’1.1.2010 (prima rilevazione fatta in base alle Istruzioni della Banca d’Italia dell’agosto 2009), come commissione manifestamente collegata all’erogazione del credito e quindi rilevante per la determinazione del tasso usurario, secondo la definizione datane dall’art. 644 c.p..
Le norme di rango primario (art. 644 c.p.; art. 2 legge n. 108) non attribuiscono alla fonte secondaria il potere di fissare normativamente le voci di costo rilevanti per la determinazione del tasso di interesse usurario della singola operazione creditizia (TEG).
Il TEGM, rilevato nei D.M., rappresenta un indicatore del fisiologico andamento del mercato del credito. A riprova, ne restano escluse tipologie di crediti (posizioni a sofferenza, crediti ristrutturati, ecc.) o voci di costo (mora) che, discostandosi dalla normalità per motivi particolari o di patologia del rapporto, altererebbero la rappresentazione del prezzo normalmente applicato.
Le Istruzioni della Banca d’Italia non entrano in conflitto con la norma primaria, perché le loro funzioni sono diverse, di rilevazione del TEGM nel primo caso e del TEG nel secondo. Ma se anche conflitto vi fosse, la sua risoluzione non potrebbe che consistere nella disapplicazione della fonte secondaria, atteso che la legge non autorizza la Banca d’Italia o il Ministro a determinare con effetti vincolanti l’aggregato di costi rilevante ai fini del TEG.
TEGM e TEG, pur nella diversità di funzione, sono grandezze omogenee, non perché composte da un medesimo aggregato di costi, ma perché definite dalla legge con il medesimo criterio (“commissioni remunerazioni spese collegate all’erogazione del credito, escluse imposte e tasse”). Pertanto, le voci di costo escluse dal campo di rilevazione del TEGM – pur se tale esclusione sia in qualche modo frutto di un grave errore dell’autorità di vigilanza (c.m.s.) – devono trovare soddisfazione nel cuscinetto (fino al 2011 pari al 50 percento; del TEGM, ora pari al 25 percento; del TEGM + 4 p.p.) esistente tra TEGM e tasso soglia, senza che possa per converso predicarsene l’esclusione dal TEG.
Non sussistono validi motivi per discostarsi dal metodo previsto nelle Istruzioni della Banca d’Italia che nelle operazioni con utilizzo rotativo e flessibile di un plafond di credito (apertura in c/c, linee di anticipo fatture/documenti, factoring, credito revolving) tengono distinti gli “interessi”, proporzionali all’utilizzato, e gli oneri, commisurati all’accordato.
È coerente con la funzione della c.m.s., come applicata nella prassi bancaria fino alla legge n. 2/2009, la qualificazione come “onere”.